Alla sagra del paese ci andò in bici, mentre sua madre accompagnava Gigio con il Kangoo attrezzato. Pensò che non fosse giusto. E si vergognò. Nella scala bambino-adulto, la sua mente reattiva si posizionava tra l'adolescente menoso e il conduttore di tram. Ogni pensiero vestito in pancia veniva denudato in testa.
Maturità. La parola sempre in bocca a una madre stanca, alla ricerca di pilastri formativi da proporreal figlio senziente.
Roba importante, riassumibile in termini e socialmente condivisa, niente di rivoluzionario: maturità, sacrificio, dedizione, attenzione, ecc.
Solo che l'odioso piglio dei tredici anni si affacciava al balcone dei sensi, per proporre guerra al mondo e lo spiccio bombardamento educativo rischiava di reprimere un moto naturale con un innaturale rigore.
“Sbattimento...” Pensò. “Minchia, Gigio...” Il rossore sulle guance, l'esantema della vergogna, iniziava a svanire. Gigio, il suo fratellone, incapace di muoversi senza aiuto, poteva giusto piangere e sorridere e, in più, spesso, lo faceva fuori contesto. Gigio era quello che da sedici anni rapiva la madre e rapinava il padre.
Perché curarlo costava, pure. Così dicevano i suoi.
“Via, la lascio qui.” Parcheggiò la bici vicino alla bancarella delle caramelle. Anche perché era stufo di pedalare. La legò al ponte che sovrastava la sagra. Si sporse dal parapetto, cercando Lena, la sua mezza fidanzata. Voleva vederla prima che sua madre lo inchiodasse al tavolo. Cercava i suoi cinque minuti di spensieratezza, prima del carico emotivo della cena, con Gigio legato alla carrozzina che urlava e si dimenava, la madre che fingeva di richiamarlo e la badante che lo imboccava. Lui in quei frangenti era costretto a vestire i panni del fotografo. Doveva osservare, ma non poteva aiutare: “perché è pesante” e “che sei ancora un pischello” e “lascialo stare, ci pensa Mara”. Pensiero conseguente “Cazzo ci sto a fare”. Il palo. Il guano sul palo. Ecco Lena. Marco si sbracciò fino a quando la rossa lo vide.
Lei gli fece cenno di scendere e lui fu felice di obbedire. Il loro era un amore fresco, ma autunnale, pieno di baci e di teatro. Lei da grande voleva viaggiare e scrivere per le guide turistiche, lui cercava l'ispirazione per le canzoni che l'avrebbero portato al successo. Come Fedez. Certo Panelungo non si prestava più di tanto alla ricerca del bello, ma, prima o poi, sarebbero scappati insieme, verso Lucca o una di queste località esotiche.
Le effusioni durarono il tempo di un crodino. Poi un emissario, il solito parente alla lontana, richiamò Marco alla tavola. E furono baci che coprono baci e carezze che neanche in Titanic. Poi un distacco musicale. Pochi passi con il collo torto ed eccolo arrivato alle panche. “Ciao, siediti. Ti ho ordinato i pici e l'oca” sussurrò una madre risoluta. “Grazie... mein Führer” rispose un figlio affamato, sussurrando la parte meno gentile. La scena successiva si svolse nel solco immaginato, con una variante. Mentre mangiava le pappardelle sminuzzate, Gigio sfilò un braccio dalla bretella, osservò l'avambraccio come se fosse lo scettro di Artù, poi, lentamente, dispiegò l'intera articolazioneverso il fratello. Marcolino, dall'altra parte del tavolo, sorpreso dall'iniziativa, gli concesse di buon grado una mano che finì stritolata e torturata. La madre taceva, scossa dall'emozione. Un'azione complessa e intenzionale. “E' forte” si ritrovò a pensare Marcolino. Gli venne in mente l'edera. Tirò fuori il moleskine e segnò – Gigio. Edera. – Cancellò edera e scrisse “rampicante”. Sul rampicante Gigio pianse. I fagioli all'uccelletto lo terrorizzavano. E Marcolino scrisse – salice rampicante. Che non esiste, ma un futuro artistapuò inventarlo.