“Ok, come ti chiami e come si chiamerà il bimbo?” La voce dell’ostetrica intervenne a colmare il silenzio dell’ultimo intervento. Fece un gran sorriso, la sua faccia abbronzata era piena di rughe, doveva essere al traguardo della cinquantina, lo sguardo fiducioso rassicurava le future mamme che goffamente si erano sedute sui tappetini, impedite dai grandi pancioni che accarezzavano a intervalli regolari. Cristina deglutì due volte prima di rispondere. Avrebbe preferito essere l’ultima a presentarsi, il cuore le batteva forte, osservava le altre, non aveva nulla in comune con loro. Sicure di sé stesse, orgogliose del loro nascituro, non vedevano l’ora di prendere la parola per raccontarsi.
Cristina non sapeva se dire la verità o meno. Non voleva essere giudicata. Tutti la giudicavano. Solo mamma e papà le erano stati vicini fin dall’inizio. Se non fisicamente, a livello emotivo sicuramente. Suo papà Giuseppe aveva saputo la notizia per telefono. La moglie lo aveva chiamato per comunicarle l’imminente visita dell’avvocato, e come appendice aveva aggiunto “tua figlia è incinta”. Il resto della conversazione Giuseppe non l’aveva sentito, perso nei suoi pensieri. Cristina aspetta un bambino. Mio nipote. Sarò nonno. Devo uscire di qua. Nonno. Si era commosso Giuseppe. Come non succedeva da anni. La vita l’aveva indurito, ma non era una cattiva persona. Aveva solo scelto strade infelici. Ed era approdato a San Vittore. Furto con scasso, rapina a mano armata, oltraggio a pubblico ufficiale e detenzione abusiva d’armi. In tre occasioni diverse. Questa era la terza volta che visitava l’albergo Vittore, come lo definiva lui. Vado in villeggiatura, era solito dire ai suoi amici. Più volte gli era stato imputato di non essere un buon genitore, ma dio solo sa quanto amasse sua figlia Cristina. Era la luce dei suoi occhi. Tutto quello che faceva era per lei, per darle un futuro migliore, e lo faceva con i mezzi che conosceva, rubando. Quando Cristina era al quarto mese di gravidanza, a Giuseppe venne concessa la libertà condizionale. Aveva passato gli ultimi due anni e mezzo dentro. Cristina non era più una bambina, lui lo sapeva, ma nella sua testa quella realtà incontrava resistenze sempre più forti. Cristina sarebbe stata sempre la sua bambina. Cristina aveva interrotto la scuola superiore due volte, ma alla fine aveva finito la scuola serale alberghiera. Adesso, a ventun anni, stava per diventare mamma. E Giuseppe nonno. Tornando a casa, Giuseppe aveva appreso che il ragazzo con cui Cristina aveva concepito il figlio si era dileguato al primo test risultato positivo. Svanito. “Non sono pronto” le aveva detto, “e tra l’altro non credo di amarti”, aveva voluto precisare. Giuseppe non aveva giurato vendetta, come tutti si aspettavano. Era una fortuna che quel coglione si fosse tolto dal gioco da solo. Ci avrebbe pensato lui a Cristina. Lei certo aveva pianto, aveva dubitato, ce la farò?, ma le braccia forti e possenti di suo padre la proteggevano dai peggiori incubi. La perdita del suo innamorato l’aveva superata il giorno stesso che suo padre fece ritorno a casa. “Ti aiuteremo mamma e io”, le aveva detto Giuseppe. Sarà il nostro nipotino, sarà uno di noi. Tre mesi dopo Giuseppe era di nuovo in villeggiatura, e si informava sullo stato di salute di Cristina per telefono.
In quel momento Cristina si chiese se avesse fatto bene a iscriversi al corso preparto. Mamma aveva insistito talmente che aveva accettato, ma ora non era sicura se la cosa avrebbe apportato beneficio o solo imbarazzo. “Mi chiamo Cristina” e fece una pausa. “Il bambino si chiamerà Giuseppe” disse e si stupì del moto di orgoglio che le uscì dal cuore e dalla voce, “dal nome di mio padre, l’uomo che si prenderà cura di lui. Sono una ragazza madre”. Cristina sentì tutti gli occhi puntati su di lei. Prese un gran respiro e continuò a raccontare. Si sentiva leggera, e già aveva dimenticato il post su Facebook che aveva messo la mattina stessa che citava: “Non sai quanto vorrei fossi qui, mi serve un tuo abbraccio, un bacio, qualcosa, mi servi tu, papà”.